Grazie, anche no.
Ecco un drama di cui si sarebbe potuto fare tranquillamente a meno. Tratto liberamente da un romanzo che avrebbe dovuto raccontare la guerra e le sue conseguenze traumatiche, la serie sembra non avere mai fatto tesoro delle innumerevoli produzioni sul tema, che negli anni hanno esplorato questo argomento in profondità e da diverse prospettive.Il cast è uno dei punti più deboli: gli attori scelti appaiono del tutto inadatti a interpretare personaggi che dovrebbero incarnare individui temprati dall’esperienza bellica. Troppo giovani, troppo “idol”, incapaci di restituire lo spessore emotivo e il dolore psicologico devastante che la storia richiederebbe. Più che soldati segnati dalla guerra, sembrano turisti in un club a tema militare. L’unica eccezione è il capitano/mercenario Ben, un personaggio che riesce almeno a bilanciare determinazione e sarcasmo, rendendo più credibile la sua presenza in questo contesto.
La sceneggiatura è altrettanto fragile: priva di reale spessore, preferisce indulgere in dinamiche adolescenziali da “campo estivo” piuttosto che affrontare un amore maturo, fatto di scelte dolorose e coraggiose nate in mezzo all’orrore.
Il tema della guerra, che dovrebbe essere il cuore della storia, è trattato in maniera disastrosa. I militari vengono presentati come sprovveduti, privi di mezzi, strategie e persino di una gerarchia credibile, ridotti a un manipolo di quindici persone incaricate, incredibilmente, di salvare un’intera nazione. Anche i ribelli sembrano usciti da un fumetto mal disegnato, privi di qualsiasi realismo o complessità.
Gli effetti speciali, infine, risultano ridicoli: fuocherelli, un po’ di fumo e rumori di spari in sottofondo che non trasmettono né tensione né drammaticità, ma solo l’impressione di una produzione povera e improvvisata.
In definitiva, The White Olive Tree fallisce sia come drama di guerra sia come storia d’amore. Non basta inserire un’ambientazione bellica per raccontare la guerra: servono conoscenza dei codici cinematografici del genere, studio, e almeno un minimo di rispetto per la ricca bibliografia filmica già esistente sull’argomento.
Il consiglio agli autori? Continuate pure con le solite commediole romantiche tra il CEO burbero e la ragazza intraprendente: almeno lì, qualche carta in più da giocare ce l’avete.
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Benvenuti nel nulla che piace, ma non a me.
Un drama così caotico che sembra scritto da un algoritmo ubriaco di soju: mille trame che si accavallano e fanno a botte come gatti in un sacco. Ogni personaggio sembra uscito da una caricatura malriuscita: lei, con l’intelligenza di un sasso levigato (ma senza nemmeno il fascino archeologico del reperto), e lui, perso in un loop infinito tra “ti amo” e “non avremmo dovuto incontrarci”, come un navigatore GPS rotto.La sceneggiatura? Una raccolta punti dei cliché presi da altri drama, incollati insieme con lo sputo e la disperazione. Il momento più surreale: un serial killer che decide di perseguitare la protagonista non per vendetta, non per trauma infantile, ma… per un cellulare trovato. Nemmeno Kafka avrebbe osato tanto.
Cosa si salva? Forse la capacità di farti rivalutare ogni altra serie vista finora, anche quelle che avevi odiato: accanto a Lovely Runner diventano capolavori. Rimane un mistero insondabile il voto altissimo su Viki, forse frutto di un complotto globale, o di spettatori che hanno lasciato la TV accesa e sono partiti per un viaggio intercontinentale.
Consigliato solo a chi vuole un’esperienza mistica tra l’assurdo e l’insopportabile. Oppure a chi vuole punirsi senza spendere in palestra.
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Il sudoku dei sentimenti in VHS
Avete presente quando un drama coreano tenta disperatamente di essere drammatico, ma finisce per sembrare più una soap anni ’80 registrata sopra a una videocassetta di Sanremo? Ecco, Phoenix è esattamente questo.Parte con una passione che dovrebbe incendiare lo schermo, ma si spegne presto trasformandosi in un sudoku dei sentimenti: tutti provano qualcosa, nessuno capisce cosa, e lo spettatore rimane lì a fare da arbitro con la matita in mano.
I personaggi piangono, sospirano, urlano con la stessa convinzione con cui io urlo al microonde quando non suona. Il pathos? Rimasto bloccato in sala d’attesa, probabilmente a fare la fila con l’ansia. Tu guardi e pensi: “Scusate, ma era questo il momento in cui dovevo piangere o ridere?”.
Il vero spettacolo però è il vintage involontario: abiti, acconciature, relazioni sentimentali tutte dritte dritte da una soffitta piena di VHS e spalline imbottite. La protagonista poi merita un premio speciale: cammina come se fosse in passerella, ma così lenta che persino le lumache le suonano il clacson e la sorpassano in curva.
Phoenix è un melodramma che prova a volare ma finisce per becchettare per terra come una gallina nostalgica.
Consigliato solo agli amanti del retrò, dei drammoni che non ce la fanno a diventare drammoni… e a chi colleziona momenti trash con la stessa dedizione di un archeologo.
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Una vendetta lunga trent’anni.
Una saga famigliare che parla di una vendetta.La storia ripercorre la vita di una famiglia che subisce un torto e che cresce concentrandosi su come fare giustizia al proprio padre morto in una miniera di carbone assassinato dal proprietario.
Personaggi.
Il protagonista assoluto è il figlio maggiore, interpretato da 3 attori diversi a secondo dell’epoca. Il suo percorso ci mostra che fin dalla giovane età si sacrifica per la vendetta più di tutti e che viene frainteso dai famigliari che spesso lo giudicano e lo maltrattano ingiustamente.
La madre una donna dura, quasi insensibile e che vede solo un figlio, il minore. Per tutta la vita si sacrifica per mantenere la famiglia e sostenere il figlio minore nei suoi studi. È una donna che vuole giustizia ma che è ingiusta verso il figlio maggiore e non solo. La definirei una madre che nessuno vorrebbe.
Il fratello minore, pur dotato di grandi doti intellettive, spesso compie azioni avventate che creano disastri soprattutto al fratello maggiore che per proteggerlo subisce tremende conseguenze. Nell’arco temporale finale diventa un uomo da detestare e incoerente.
La famiglia rivale è composta da un padre, l’uomo artefice di tutte le ingiustizie e cattiverie, il figlio che anche se indole buone si fa trasformare dal padre in un arma per mettere in atto le peggior cose e la madre che è l’unico personaggio buono assieme al nonno.
Una storia costruita bene anche se a volte le vicende si ingarbugliano troppo e i personaggi repentinamente cambiano fazione e indole.
Regia, fotografia non sono degni di nota perché risentono di un trattamento vintage per mostrare un’epoca ormai passata. La sceneggiatura anche se ben costruita è fin troppo arzigogolata e ricca di vicende. La parte meno approfondita è quella finale molto veloce perché avrebbero dovuto lasciare spazio al pentimento.
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Un drama Cult che va visto per comprendere l’evoluzione che ha fatto la korea.
Winter sonata è un melodramma molto diverso da quelli a cui siamo abituati perché mostra un periodo che sembra lontanissimo anche se non lo è veramente. Un melodramma che anche se complesso non perde mai la bussola raccontando una toccante love story che dura 20anni ricca di colpi di scena.- La regia è molto semplice e ricorda le prime serie in stile fotoromanzo.
- La sceneggiatura è, per un certo verso, più originale di tanti drama. Il tutto è sempre velato da una sofferenza che esplode nell’anima dei personaggi provocando crisi esistenziali e dilemmi.
- I dialoghi sono molto lenti e melodrammatici che rendono tutto molto sofferente e mancano di ritmo.
- Gli attori non sono stati presi per la loro fisicità ma sono attori veri che fanno trasparire i loro sentimenti anche se a volte esagerano con le lacrime.
- I personaggi sono gli antenati dei personaggi di oggi. Ho scoperto che la tipologia amica stordita esisteva fin dai primi drama e non è una creazione recente. Come in ogni buon kdrama esiste anche una madre che arriva a livelli di crudeltà impossibili da concepire e manipola fatti e persone per egoismo fine a se stesso.
- Lo styling ricorda più i nostri anni 80 soprattutto il protagonista che ha i capelli con i colpi di sole in stile Duran Duran, anche un po’ alla kiss me Licia ma in versione ragioniere o Albano da giovane.
- La colonna sonora è composta da brani internazionali famosi tipici di quegli anni e non gruppi autoctoni se non per le parti cantate con significati inerenti alle scene.
- Le location sono molto diverse da quelli a cui ci siamo abituati ora e sicuramente interessanti come le montagne innevate piene di sciatori e i laghi vicino a Seoul.
- Il make-up molto naturale che rende veri i personaggi e che non fanno una skincare la mattina.
Lo consiglio soprattutto a chi è curioso di conoscere le origini dei drama koreani e a chi ama i melodrammi pieni di sentimento e problemi ma anche a chi vuole scoprire uno spaccato di korea che oggi è molto difficile trovare nei lavori contemporanei pieni di colori e modernità.
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Quando il cuore batte, ma il trono traballa.
Nel regno di Red Heart, le emozioni scorrono come vino su un tavolo di porcellana: intense, eleganti, ma sempre sul punto di lasciare una macchia indelebile. È un drama che promette vendetta e invece regala lunghe riflessioni, dove gli intrighi di palazzo si srotolano come una sciarpa troppo lunga e raffinata, ma perfetta per inciampare.Il principe ereditario, perennemente in posa da icona tragica, attraversa i corridoi con l’aria di chi ha appena letto un brutto presagio nel tè. Con quella faccia contrita, metà santo, metà bugiardo, dice una cosa e fa l’opposto, come un funambolo del paradosso. È il Pierrot della monarchia coreana: lacrima inclusa, sguardo emblematico e un talento innato per l’ambiguità.
La protagonista, spinta in teoria dal desiderio di vendetta, in pratica è l’unica ad aver capito che la vendetta è un lusso per egoisti. Riflette, comprende, si eleva. È la voce della coscienza in un palazzo abitato dagli echi delle menzogne.
E infine arriva lo pseudo-cattivo, o forse il vero protagonista: colui che brilla non per bontà, ma per intelligenza. È il cinico realista che smaschera il potere, il volto della lucidità in un mondo travolto dall’egoismo. Il suo fascino sta proprio lì: per quanto oscuro, è l’unico a capire davvero il gioco.
Red Heart è una danza di maschere, un valzer di intenzioni travestite. Nessuno è puro, nessuno è del tutto colpevole. È una riflessione elegante e spietata sul potere, sulla vanità umana e sull’eterna ambiguità delle scelte.
Un dramma che non si guarda: si decifra.
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Anche gli imperatori piangono.
Il drama coreano che avrebbe voluto raccontare i sofisticati giochi di potere della corte imperiale, ma finisce per somigliare più a una riunione di condominio gestita da nobili smemorati. Tutti complottano, nessuno sa perché, e il verbale dell’ultima puntata è sparito insieme alla logica.Si parte in grande stile: sguardi taglienti, tradimenti cesellati e cappelli così monumentali da meritare un titolo nobiliare. Poi, lentamente, tutto deraglia in un labirinto narrativo dove i personaggi svaniscono, le alleanze cambiano come il meteo e l’imperatore passa dalle lacrime disperate alle condanne capitali nel giro di un’inquadratura. Diagnosi: bipolarismo narrativo acuto.
Il primo imperatore ha una moglie, un figlio e, probabilmente, un harem: il classico ecosistema domestico/imperiale che sparisce all’improvviso, senza un addio né un comunicato ufficiale. Nessuno se ne accorge, nessuno chiede spiegazioni. Forse sono evaporati in un incidente di sceneggiatura.
Poi c’è la protagonista, data per morta, che ritorna come se niente fosse: nessuno le domanda “Scusa, ma dov’eri finita?”. Forse era in vacanza in un’altra dimensione narrativa, o intrappolata in una sottotrama scartata in post-produzione.
E naturalmente c’è l’innamorato devoto, l’uomo che la chiama “Vostra Grazia”, la osserva da lontano come una reliquia sacra e sviene se le sfiora il polso. Un amore così puro da sembrare un corso di galateo tenuto in un monastero zen.
Quando finalmente pensi di aver capito qualcosa… bam!: nuovo imperatore, nuovi intrighi e nuovi malintesi cosmici. La trama si piega su se stessa come un origami di seta impazzito, e la politica diventa un esperimento di fisica quantistica mascherato da melodramma storico.
Dopo cinquanta episodi, lo spettatore non sa più chi comanda, chi è morto, chi è risorto o chi semplicemente ha cambiato pettinatura. Una sola certezza: la “politica splendida” del titolo si è trasformata in un carnevale barocco, dove nessuno balla, ma tutti piangono con eleganza e citano Sun Tzu come se fosse un poeta romantico.
I bambini crescono, ma gli adulti restano identici, fatta eccezione per due baffi e una spolverata di barba, giusto per dire “è passato del tempo”.
In definitiva, Splendid Politics non è solo un drama: è un’esperienza mistica di smarrimento collettivo, un labirinto di sete, lacrime e logiche invisibili.
Non si guarda per capire, ma per perdersi con stile.
La splendida politica era solo un sogno… e noi, gli inconsapevoli consiglieri di corte.
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Black Knight: cavaliere oscuro… ma un po’ inciampante
Se Black Knight fosse una persona, sarebbe quel tipo che entra in una stanza con il mantello svolazzante, ti fissa con sguardo intenso e poi inciampa sul tappeto. La trama punta in alto: reincarnazioni, maledizioni millenarie, amore eterno, un cattivo immortale che non sa mai se vuole distruggere il mondo o solo cambiare look… insomma, gli ingredienti ci sono tutti.Il nostro cavaliere nero però, più che un eroe tormentato sembra spesso un principe azzurro catapultato per errore in una telenovela: buono fino all’imbarazzo, fedele come un golden retriever, e con una fortuna immobiliare che manco Monopoli. Dall’altra parte la classica eroina di cui il destino si prende gioco,
ma anche lei ogni tanto sembra dimenticarsi se deve piangere, combattere o solo cambiare outfit.
I veri fuochi d’artificio arrivano con la “villain” immortale, elegante e velenosa: un personaggio così teatrale che se avesse avuto un gatto nero da accarezzare, nessuno avrebbe battuto ciglio.
La regia è discreta, i costumi brillano, le location sembrano prese da un catalogo turistico premium. Il problema? A volte la storia si prende troppo sul serio, e quello che poteva essere un fantasy avvincente si trasforma in una sfilata di “momenti intensi” che rischiano di diventare parodie involontarie.
In sintesi: Black Knight è come una scatola di cioccolatini di lusso: bellissima da vedere, un po’ troppo zuccherosa, ma comunque difficile da lasciare a metà.
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Odissea del gangster adolescente e della donna con l’anima antiproiettile.
When a Man’s in Love parte con il piede giusto: un inizio solido, una sceneggiatura che brilla come un lampione nuovo e lascia presagire un viaggio narrativo intenso. Al centro c’è lui, il protagonista: un uomo che ha dovuto crescere troppo in fretta, come se qualcuno avesse schiacciato il tasto “fast forward” sulla sua infanzia. Questo lo rende affascinante e fragile al tempo stesso, una sorta di adulto precoce intrappolato in un mondo che non gli concede mai una pausa.Poi, però, succede qualcosa. È come se lo script venisse tritato con la stessa delicatezza con cui si taglia un pesce destinato al brodo: pezzi che galleggiano qua e là, frammenti che non sempre trovano il loro posto.
I personaggi intorno a lui sembrano vittime di una centrifuga: cambiano troppo in fretta, come se qualcuno avesse premuto il tasto “shuffle” sulle loro personalità. La trama, intanto, si muove in direzioni sempre più eccentriche, quasi a voler sviare lo spettatore da quel rapporto tormentato che, evidentemente, metteva a disagio più del previsto.
Il risultato? Un drama che resta lontano anni luce dai prodotti moderni, levigati e cosparsi di zucchero filato morale. Qui c’è qualcosa di diverso, a tratti caotico, a tratti affascinante: un melodramma che osa, inciampa e poi si rialza, lasciando lo spettatore con la sensazione di aver assistito a una danza strana, a metà tra il tango e la capoeira.
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Il re Mida ma versione ottone.
Il titolo richiama la leggenda di Re Mida: l’uomo che, nel desiderio di trasformare tutto in oro, finì per perdere ciò che aveva di più prezioso. È proprio questo il messaggio centrale del drama: l’ambizione sfrenata porta inevitabilmente a un prezzo altissimo, spesso la perdita delle relazioni, degli affetti e persino di sé stessi.Sulla carta, il tema funziona. La serie promette di raccontare il mondo spietato della finanza, con intrighi, manipolazioni e scandali. Nella pratica, però, l’approfondimento resta in superficie: il mondo finanziario diventa una versione edulcorata, quasi “all’acqua e sapone”, confezionata per un pubblico medio e in particolare per la casalinga di mezz’età che ama il melodramma.
Il vero tallone d’Achille è il modo in cui viene inserito il tema del perdono. Nel contesto di una storia che dovrebbe esplorare cinismo, avidità e corruzione, il continuo ritorno ai sentimenti rischia di indebolire la tensione. Il perdono, motore classico dei melodrammi, qui stride con la realtà di un mondo finanziario che non vive di sentimenti e non perdona.
In sintesi, Midas ha l’intuizione giusta: mostrare il prezzo del potere e dell’ambizione. Ma, pur avendo un buon impianto narrativo, non riesce a scavare davvero nelle logiche della finanza né a mantenere coerente il tono drammatico, finendo per oscillare tra il ritratto di un impero che crolla e una storia d’amore che, per quanto tenera, spezza la durezza del tema
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Per chi non teme le lacrime.
Sad Love Story è uno dei melodrammi più intensi e tragici dei primi anni 2000.La vicenda ruota attorno a Joon-young e Hye-in, due giovani che fin dall’infanzia si proteggono e si vogliono bene.
La loro relazione è segnata da difficoltà sociali, malattie e soprattutto da interferenze esterne.
Fin dalle prime puntate la cattiveria è costante: fisica, psicologica, sottile e manipolatoria.
Lo spettatore percepisce presto la direzione della trama, ma resta coinvolto dalle emozioni forti.
Il motore principale è l’egoismo di una madre, di una zia, di un amico e di un amore non corrisposto, che porta a tragedie evitabili.
Chi causa dolore raramente subisce una vera punizione, e questo lascia un senso di ingiustizia.
Il perdono arriva quasi come obbligo narrativo, senza che ci sia un reale contrappasso.
Avrei voluto vedere personaggi ribellarsi con più decisione all’ossessione che viene loro imposta.
Qui emerge un limite tipico del melodramma classico: la vendetta è riservata solo ai malvagi perché i buoni sono buoni sempre.
Lo sceneggiatore Lee Sung-eun, però, dimostra grande talento nel creare atmosfere intense.
Sa usare silenzi, attese e sguardi per dare peso emotivo a ogni scena.
Il suo stile non è solo sadico, ma ci mostra il significato di amicizia.
Il risultato è una serie che commuove, fa riflettere e resta nella memoria.
Sad Love Story non regala catarsi, ma amore.
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Il drama dove i cliché vanno in pensione
Later, I Laughed è stata una splendida sorpresa: un drama originale, intelligente, delicato e scritto con grande cura. La sceneggiatura è solida e il lavoro degli autori davvero notevole, capace di dare vita a una storia molto più realistica e umana rispetto a tanti altri drama cinesi che cercano di affrontare le problematiche della vita.I personaggi non sono mai monodimensionali: quasi tutti trovano un momento di crescita o di redenzione. In particolare, il primo fidanzato della protagonista è forse uno dei ritratti meglio riusciti. All’inizio incarna un uomo con una visione ristretta della donna, ma il suo percorso di evoluzione è così realistico da renderlo, col tempo, uno dei personaggi più interessanti. Alla fine diventa quasi il mio preferito, contribuendo in modo significativo a rendere la storia più vera e sfaccettata.
Altro punto di forza è il modo in cui vengono rappresentate le relazioni femminili: niente litigi gratuiti o rivalità sterili, ma rapporti narrati con maturità e autenticità. Anche la componente sentimentale è ben calibrata ma senza i soliti cliché drammatici che appesantiscono. È una dolcezza misurata, che arricchisce la trama senza soffocarla.
Il finale aperto è, a mio avviso, uno dei più giusti e coerenti tra i drama cinesi. Assolutamente appropriato, perché questa non è solo una storia d’amore o di relazioni, ma soprattutto un viaggio di scoperta personale. Un finale standard avrebbe indebolito il messaggio, mentre così resta la sensazione di un percorso ancora vivo, che continua.
E come ciliegina sulla torta, un cast eccezionale che non ricorderete per bellezza o fisicità, ma per la bravura e per l’intensità di ogni singolo attore. Il tutto sostenuto da una regia fresca e moderna, capace di rendere il drama attuale e mai stereotipato
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Quando il pensiero diventa un crimine di corte.
C’è chi guarda i drama per rilassarsi, e poi c’è chi guarda The Queen Who Crowns per farsi scuotere fino all’anima, stirarla e appenderla come arazzo nella sala del trono.Benvenuti nella Corea della nascita della dinastia Joseon: dove gli imperatori si credono semidei, le regine dovrebbero essere gioielli ambulanti e il patriarcato non solo comanda, ma pretende pure di essere ringraziato.
Questo drama è un capolavoro d’equilibrio fra tragedia, estetica e crudeltà di corte. Tutto è talmente perfetto che sospetti l’intervento di qualche divinità del montaggio. È una di quelle rare serie che vorresti non finissero mai, ma forse è meglio così: troppa bellezza tutta insieme rischia di destabilizzare l’ordine cosmico.
La storia non è una favola e lo zucchero, qui, è bandito per decreto imperiale. Gli uomini di potere sono feroci e vulnerabili come tigri ferite, e le donne, pur essendo il cervello del regno, vengono trattate come ornamenti politici da schiacciare.
L’imperatrice è la mente lucida e la spina dorsale del nuovo impero: intelligente, stratega, visionaria. Ed è proprio questa intelligenza a condannarla.
Il marito, l’imperatore, è un caso di scuola di gelosia intellettuale: incapace di sopportare che la moglie veda più lontano di lui, si dibatte in un mare di sospetto, vanità e crudele vendetta. La sua insicurezza si trasforma in ferocia, la sua passione in persecuzione. È un uomo che ama e odia nello stesso gesto, che teme ciò che ammira, e che distrugge ciò che non riesce a possedere.
Applausi infiniti al regista, che rispetto ai suoi primi lavori compie un salto quantico: inquadrature moderne, potenti, quasi sacrali, dove ogni taglio sembra un atto di fede nel linguaggio visivo.
Il direttore della fotografia è un alchimista della luce che fonde realtà e mistica bellezza fino a far sembrare ogni scena una visione sospesa tra sogno e realtà.
E l’art director, be’, ha trovato la chiave per far respirare la Storia stessa: montagne, corti, ombre e riflessi che sembrano scritti con l’inchiostro del tempo.
Gli attori? Da manuale. Ogni sguardo è un duello, ogni parola una lama avvolta nella seta.
Perfetti nell’incarnare il dramma umano dietro il potere: l’amore come guerra, l’intelligenza come peccato, la regalità come condanna.
Un avvertimento: lasciate perdere se cercate il solito drama “dolcificante per lo spirito” non è il drama per diabetici romantici
Qui l’amore brucia, il potere corrompe, e la dolcezza in un atto egoista.
Un’opera sontuosa, crudele, poetica.
Un racconto che incorona l’intelligenza femminile proprio mentre mostra il prezzo da pagare per possederla.
Un trono d’oro che taglia come una lama.
Se vi interessa questo periodo di Storia Della Korea potete approfondire guardando Taejong Yi Bang Won che ripropone la stessa parte di storia ma spostando il focus sull’imperatore. Una regia meno innovativa ma comunque molto interessante perché indugia sulle dinamiche a volte in maniera più approfondita.
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