Quando il pensiero diventa un crimine di corte.
C’è chi guarda i drama per rilassarsi, e poi c’è chi guarda The Queen Who Crowns per farsi scuotere fino all’anima, stirarla e appenderla come arazzo nella sala del trono.
Benvenuti nella Corea della nascita della dinastia Joseon: dove gli imperatori si credono semidei, le regine dovrebbero essere gioielli ambulanti e il patriarcato non solo comanda, ma pretende pure di essere ringraziato.
Questo drama è un capolavoro d’equilibrio fra tragedia, estetica e crudeltà di corte. Tutto è talmente perfetto che sospetti l’intervento di qualche divinità del montaggio. È una di quelle rare serie che vorresti non finissero mai, ma forse è meglio così: troppa bellezza tutta insieme rischia di destabilizzare l’ordine cosmico.
La storia non è una favola e lo zucchero, qui, è bandito per decreto imperiale. Gli uomini di potere sono feroci e vulnerabili come tigri ferite, e le donne, pur essendo il cervello del regno, vengono trattate come ornamenti politici da schiacciare.
L’imperatrice è la mente lucida e la spina dorsale del nuovo impero: intelligente, stratega, visionaria. Ed è proprio questa intelligenza a condannarla.
Il marito, l’imperatore, è un caso di scuola di gelosia intellettuale: incapace di sopportare che la moglie veda più lontano di lui, si dibatte in un mare di sospetto, vanità e crudele vendetta. La sua insicurezza si trasforma in ferocia, la sua passione in persecuzione. È un uomo che ama e odia nello stesso gesto, che teme ciò che ammira, e che distrugge ciò che non riesce a possedere.
Applausi infiniti al regista, che rispetto ai suoi primi lavori compie un salto quantico: inquadrature moderne, potenti, quasi sacrali, dove ogni taglio sembra un atto di fede nel linguaggio visivo.
Il direttore della fotografia è un alchimista della luce che fonde realtà e mistica bellezza fino a far sembrare ogni scena una visione sospesa tra sogno e realtà.
E l’art director, be’, ha trovato la chiave per far respirare la Storia stessa: montagne, corti, ombre e riflessi che sembrano scritti con l’inchiostro del tempo.
Gli attori? Da manuale. Ogni sguardo è un duello, ogni parola una lama avvolta nella seta.
Perfetti nell’incarnare il dramma umano dietro il potere: l’amore come guerra, l’intelligenza come peccato, la regalità come condanna.
Un avvertimento: lasciate perdere se cercate il solito drama “dolcificante per lo spirito” non è il drama per diabetici romantici
Qui l’amore brucia, il potere corrompe, e la dolcezza in un atto egoista.
Un’opera sontuosa, crudele, poetica.
Un racconto che incorona l’intelligenza femminile proprio mentre mostra il prezzo da pagare per possederla.
Un trono d’oro che taglia come una lama.
Se vi interessa questo periodo di Storia Della Korea potete approfondire guardando Taejong Yi Bang Won che ripropone la stessa parte di storia ma spostando il focus sull’imperatore. Una regia meno innovativa ma comunque molto interessante perché indugia sulle dinamiche a volte in maniera più approfondita.
Benvenuti nella Corea della nascita della dinastia Joseon: dove gli imperatori si credono semidei, le regine dovrebbero essere gioielli ambulanti e il patriarcato non solo comanda, ma pretende pure di essere ringraziato.
Questo drama è un capolavoro d’equilibrio fra tragedia, estetica e crudeltà di corte. Tutto è talmente perfetto che sospetti l’intervento di qualche divinità del montaggio. È una di quelle rare serie che vorresti non finissero mai, ma forse è meglio così: troppa bellezza tutta insieme rischia di destabilizzare l’ordine cosmico.
La storia non è una favola e lo zucchero, qui, è bandito per decreto imperiale. Gli uomini di potere sono feroci e vulnerabili come tigri ferite, e le donne, pur essendo il cervello del regno, vengono trattate come ornamenti politici da schiacciare.
L’imperatrice è la mente lucida e la spina dorsale del nuovo impero: intelligente, stratega, visionaria. Ed è proprio questa intelligenza a condannarla.
Il marito, l’imperatore, è un caso di scuola di gelosia intellettuale: incapace di sopportare che la moglie veda più lontano di lui, si dibatte in un mare di sospetto, vanità e crudele vendetta. La sua insicurezza si trasforma in ferocia, la sua passione in persecuzione. È un uomo che ama e odia nello stesso gesto, che teme ciò che ammira, e che distrugge ciò che non riesce a possedere.
Applausi infiniti al regista, che rispetto ai suoi primi lavori compie un salto quantico: inquadrature moderne, potenti, quasi sacrali, dove ogni taglio sembra un atto di fede nel linguaggio visivo.
Il direttore della fotografia è un alchimista della luce che fonde realtà e mistica bellezza fino a far sembrare ogni scena una visione sospesa tra sogno e realtà.
E l’art director, be’, ha trovato la chiave per far respirare la Storia stessa: montagne, corti, ombre e riflessi che sembrano scritti con l’inchiostro del tempo.
Gli attori? Da manuale. Ogni sguardo è un duello, ogni parola una lama avvolta nella seta.
Perfetti nell’incarnare il dramma umano dietro il potere: l’amore come guerra, l’intelligenza come peccato, la regalità come condanna.
Un avvertimento: lasciate perdere se cercate il solito drama “dolcificante per lo spirito” non è il drama per diabetici romantici
Qui l’amore brucia, il potere corrompe, e la dolcezza in un atto egoista.
Un’opera sontuosa, crudele, poetica.
Un racconto che incorona l’intelligenza femminile proprio mentre mostra il prezzo da pagare per possederla.
Un trono d’oro che taglia come una lama.
Se vi interessa questo periodo di Storia Della Korea potete approfondire guardando Taejong Yi Bang Won che ripropone la stessa parte di storia ma spostando il focus sull’imperatore. Una regia meno innovativa ma comunque molto interessante perché indugia sulle dinamiche a volte in maniera più approfondita.
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